BAMBINI E ADOLESCENTI CHE SOFFRONO LA SALUTE MENTALE SFIDA DEL DUEMILA

La ricerca scientifica, in psicanalisi, ha per oggetto gli eventi psichici del ricercatore stesso, nei suoi rapporti con gli altri e, in particolare, in quello con i portatori di malattia psichica.
Mentre ogni indagine, condotta dall’esterno, sugli eventi psichici di un’altra persona, è necessariamente mediata da­gli strumenti usati e dallo stato psichico del ricercatore, già lo studio e l’interpretazione di transfert e di controtransfert, rivelano come il malato psichico trasmetta attraverso il lin­guaggio – verbale e non verbale – soltanto quello che razio­nalmente può tenere sotto controllo, e per via empatica i con­tenuti emotivi, vale a dire tutto quello che sottopone a cen­sura con l’anestesia del sentimento (si veda più oltre).
La formazione scientifica dell’analista psicologo passa, pertanto, attraverso i seguenti livelli operativi.

    a. Primo livello: addestramento all’ascolto empatico.
Il primo passo è quello di imparare a riconoscere la diffe­renza fra i materiali che si raccolgono attraverso la percezione razionale (rapporto di natura economica) e quelli che perven­gono attraverso quella basata sul sentimento (rapporto di natura simbiotica), privilegiando l’ascolto empatico dei vissuti emotivi (vale a dire dei sentimenti che si provano), a seconda delle persone con cui si entra in rapporto, in situazioni indi­viduali e di gruppo. A questo livello si addestra pertanto la propria sensibilità emotiva a riconoscere gli stati d’animo provenienti dagli altri, sani e disturbati, e a distinguere fra i sentimenti propri e quelli estranei.

   b. Secondo livello: analisi dei vissuti
La natura dei vissuti emotivi che si hanno prima, durante e dopo l’incontro con altri, è la stessa degli stati d’animo normalmente presenti in ognuno, ma che cambiano in mi­sura significativa la loro fisionomia, per entità e per oggetto, sotto l’influenza delle induzioni empatiche provenienti dalle persone che si incontrano. Donde la necessità di imparare a distinguere fra i vari vissuti emotivi per riconoscere le carat­teristiche dei propri, diversi da quelle dei vissuti provenienti dall’esterno, e risalire con sicurezza alla fonte delle relative induzioni empatiche.

    c. Terzo livello: lettura delle induzioni
Le comunicazioni empatiche per induzione sono immedia­te, non passano cioè attraverso alcun mediatore, quale pen­siero, segno, parola o suono. Onde renderle operativamente utilizzabili, nello studio del caso e poi all’interno delle sedute di psicanalisi, richiedono quindi una lettura (una trascrizio­ne essendo inadeguata), che le collochi nel loro contesto ori­ginario, come tessere rivelatrici della natura dell’intero mo­saico. A confronto con la patologia, l’addestramento alla let­tura delle induzioni è la premessa allo studio del caso, all’ef­ficacia del successivo intervento psicanalitico, e al manteni­mento dell’equilibrio psichico dell’analista.

    d. Quarto livello: confronto con le induzioni raccolte dai colleghi nella stessa seduta.
Il quadro della situazione patologica presenta più lati, osservati con ricchezza di particolari da più operatori, pre­senti in silenzio nella seduta psicanalitica. Dalla successiva analisi dei loro vissuti si ricava una lettura delle induzioni più dettagliata e ricca di risvolti operativi, propositiva di soluzio­ni articolate, e propedeutica al livello successivo.

    e. Quinto livello: assunzione in analisi di situazioni com­plesse da parte di più analisti
Nel trattamento di situazioni complesse, dove più soggetti disturbati in una medesima realtà (famiglia, comunità, luogo di lavoro), o dove più livelli d’intervento (per mobilitare le risorse disponibili), richiedono più analisti, si supera l’incom­patibilità (cioè l’impossibilità a intrattenere rapporti fra psi­canalisti impegnati nell’analisi differenziata di soggetti in relazione costante fra loro) con la compartecipazione alle se­dute altrui. La lettura di tutte le induzioni raccolte e il con­fronto fra di esse, che ne deriva, consentono di coordinare verso gli stessi obiettivi i diversi interventi.

I successivi livelli formativi rispecchiano lo sviluppo, in quasi trent’anni, della ricerca scientifica operativa, con la scoperta della causa e della natura della malattia psichica, e della relativa sperimentazione sul campo.

Le premesse alla ricerca

Qual è la causa della malattia psichica? Quale ne è la natura?
Sono interrogativi che ci poniamo da sempre, poiché fe­nomeni come la guerra, l’omicidio, la malvagità, la so­praffazione, l’imbroglio si spiegano soltanto con la follia, e le risposte, nel passato furono le più diverse.
Le pratiche religiose per prime, affiancate dai codici di leggi poi, hanno cercato di dare una risposta non soltanto al perché del male, ma anche a come contenere le conseguenze più gravi della “cacciata dal paradiso terrestre”.
Si va così dalla definizione di riferimenti morali di base (come per i dieci comandamenti della religione ebraica), fino alla formulazione di precetti che diventano nel tempo sem­pre più propositivi di un modello di equilibrio individuale e sociale; e dalla promulgazione di leggi per le controversie più frequenti (come il codice di Hammurabi o le dodici tavole romane), fino a dettare regole di comportamento persino in caso di guerra (momento per sua natura privo di ogni regola) come con il codice d’onore dei cavalieri medioevali o la più recente Convenzione di Ginevra.
La proclamazione dei “diritti dell’uomo”, alla base dell’Or­ganizzazione delle Nazioni Unite, è sicuramente il punto più alto raggiunto dalla nostra civiltà; è tuttavia consapevolezza di tutti che non esistano ancora strumenti legislativi capaci
di sradicare la criminalità; essa sembra adeguarsi ai tempi mutati, assumendo caratteri multinazionali, e attrezzandosi con la tecnologia più aggiornata.
Ma già nell’Ottocento, proprio qui a Milano, nel libro “Dei delitti e delle pene”, Cesare Beccaria si rendeva conto di come, le leggi, fossero uno strumento largamente inefficaci per contenere i comportamenti devianti, e in particolare quelli più gravi, per i quali era prevista la pena capitale. Egli coglie­va infatti, nella pratica a delinquere, un così esplicito deside­rio di morte, di autodistruzione che, a quel punto, la stessa condanna estrema diventava funzionale al delitto.
Quindi, oltre che deterrente inefficace, in quelle particola­ri situazioni, rappresentava addirittura un incentivo alla tra­sgressione, onde “conseguire” la condanna. Comportamenti di questo tipo non lasciano dubbi sulla loro natura pato­logica, che con la giurisprudenza ha poco a che vedere.
Ma sarebbe semplicistico ritenere che la legislazione, e la morale, una volta risolto il problema della follia, siano de­stinate a diventare pressocché inutili. Codici di leggi (come parametro di riferimento per l’assunzione di responsabilità reciproche) e principi morali (come frutto dell’esperienza del­la collettività cui fare riferimento per la propria identità so­ciale) sono indispensabili per la chiarezza dei rapporti fra le persone. Essi sono parte integrante del processo educativo attraverso cui le nuove generazioni imparano ad affrontare i sacrifici e l’impegno individuali necessari per capire, appren­dere e utilizzare gli strumenti che la società mette a loro disposizione.
Una società, quanto più è complessa e matura, richiede pratiche di vita individuale esemplari e regole collettive di riferimento valide e comprensibili per tutti; e l’utopia verso cui ci muoviamo è, non a caso, quella di una società dove ciascun cittadino si renda conto di come ogni suo gesto con­tribuisca a modificare, nel bene e nel male, gli equilibri mo­rali (vale a dire il costume, le consuetudini) di tutto il conte­sto, e dove le leggi sappiano interpretare, e tradurre in regole chiare e certe, le linee di condotta più importanti.
La trasgressione nasce dalla follia, di chi non rispetta per­ché non comprende che, promulgando leggi ingiuste o igno­rando quelle giuste, produce danno prima di tutto a se stes­so.
Da quando perciò, nella metà del secolo scorso a Parigi, Théodore Ribot e Pierre Janet incominciarono la ricerca scien­tifica nella psicanalisi, scoprendo i comportamenti ripetitivi, stereotipati “automatismo psicologico”), degli psicotici, il mondo è cambiato radicalmente. Di pari passo con lo svilup­po della psicanalisi, le manifestazioni patologiche più gravi sono drasticamente diminuite, e hanno trovato spazio final­mente quei cittadini “pacifici”, sempre più numerosi, che “possiederanno la terra”.
Così, per la prima volta dopo migliaia di anni, in Europa si sono avuti cinquant’anni senza guerre. Nello stesso tem­po, la collaborazione fra i popoli si è sviluppata al di là di ogni più rosea aspettativa, se si pensa che ancora nel 1940, nonostante le leggi e le convinzioni morali, alcuni pochi paz­zi erano in grado di trascinare intere nazioni, della civilissima Europa, a credere di poter risolvere i propri problemi con lo sterminio o il soggiogamento dei popoli confinanti.
Oggi queste medesime nazioni sono al centro della co­struzione di una patria comune.
Molto è stato fatto, e i risultati positivi sono da ricondurre allo sviluppo del trattamento psicanalitico, indipen­dentemente dalla validità o meno delle teorie che lo hanno accompagnato.
Non è da sottovalutare che chi effettua il trattamento non applichi una teoria, ma metta sempre in gioco se stesso, la propria salute mentale: o riesce a offrire al malato la possibili­tà di venire a capo del proprio disturbo, o rischia di essere risucchiato anch’egli nella stessa patologia. Questa condizio­ne di lavoro ha fatto sì che ci fosse, da parte di ciascun psica­nalista, l’esigenza di tutelare prima di tutto il proprio equilibrio psichico, e l’apprendimento della professione avviene esclusi­vamente attraverso la pratica psicanalitica cui ci si sottopone prima di poter incominciare a occuparci degli altri
La principale conseguenza, di una applicazione prima con se stessi di un intervento che si va a fare con altri, è stato quello di favorire la ricerca di parametri validi, prima che per la patologia, per la salute mentale. Questo è quello che ab­biamo fatto da venticinque anni a questa parte presso il CIRSOPE – Centro Italiano di Ricerca Scientifica Operativa nella Psicanalisi e nell’Educazione – di Milano.
Gli inizi, come sempre, sono stati molto diffìcili, poiché si trattava di andare oltre il luogo comune secondo cui la psi­canalisi, dedita a una visione qualitativa e non quantitativa della realtà, non potesse considerarsi non dico una “scienza esatta”, ma neppure una “scienza”.
La verità è che la psicanalisi è la scienza esatta che si occu­pa del sentimento, e la lunga pratica di ricerca ha dimostrato che gli strumenti emotivi di indagine sono altrettanto esatti di quelli razionali L’impiego degli strumenti emotivi ci ha con­sentito di dare la risposta scientifica alle domande iniziali
Per comprendere la patologia, occorre pertanto vedere dapprima come si presenta la salute mentale.

Che cos’è la salute mentale
L’equilibrio psicofisico di una persona si evolve reggendo­si su due modalità di rapporto: quella di natura economica e quella di natura simbiotica.
La modalità di rapporto di natura economica garantisce la sopravvivenza fisica, con la capacità di provvedere alla propria alimentazione, alla riproduzione della specie, alla difesa dagli elementi fisici esterni (le temperature estreme, gli agenti meteorologici, le malattie, le circostanze a rischio), all’uso razionale delle risorse disponibili.
La modalità di natura simbiotica garantisce la sopravvi­venza psico-emotiva, in quanto consente di stabilire i legami affettivi indispensabili per motivare la propria permanenza in vita.
La salute mentale è data dalla presenza dell’equilibrio psicofisico, con la capacità, da parte di una persona, di utiliz­zare, nel rapporto con la sua realtà, sia la modalità economica (a garanzia della sopravvivenza fisica) sia la modalità simbiotica (a garanzia della sopravvivenza psico-emotiva).

Natura e cause della malattia mentale
Se viene meno la capacità di rapportarsi economicamente con la realtà, il soggetto muore. Ma anche se viene meno la capacità di rapportarsi simbioticamente, con gli altri, il sog­getto – di fatto escluso dal contesto umano – si lascia morire.
Se non è più in grado di alimentarsi, una persona va incon­tro alla morte per fame.
Analogamente, quando non fosse in grado di stabilire un rapporto affettivamente significativo con i suoi simili, va in­contro alla morte per quella sindrome chiamata impropria­mente “depressione”, ma che in realtà è il cosiddetto “mara­sma”, ben noto nei neonati deprivati di rapporto parentale, e caratterizzato da una vera e propria perdita di interesse per la vita e dal lasciarsi scivolare verso la morte.
Una persona, che si trovi di fronte a difficoltà di rapporto affettivo talmente gravi da essere superiori alla propria ca­pacità di sopportazione, si vede costretta – per non morirne – a elaborare una soluzione che le consenta di “congelare”, almeno temporaneamente, la propria permeabilità emotiva.
Per fare questo, ella deve escludere quasi completamente la modalità di rapporto di natura simbiotica, che impiega, per esprimersi, le facoltà empatiche. A tale scopo, utilizza la modalità di rapporto di natura economica anche nelle situa­zioni in cui dovrebbero intervenire i sentimenti.
Le due modalità sono però troppo diverse, e il rifuggire dal sentimento produce distorsioni molto gravi. Per esempio, all’amicizia si sostituisce lo sfruttamento e la seduzione; al­l’amore l’erotismo; alla fiducia il controllo; all’assunzione di responsabilità l’esercizio del potere.
La visione della realtà, non più equilibrata su due versan­ti, diventa quasi esclusivamente economica, al punto che il sentimento perde il suo effettivo significato, e le parole che lo designano appaiono semplici contenitori privi di contenuto. In questo modo però risulta molto difficile districarsi, e la persona si deve premunire, con apposite “strutture di so­pravvivenza”, cioè con quei comportamenti disturbati – cui si fa riferimento nella letteratura scientifica, per descrivere le varie forme di malattia mentale – che le consentano sostanzialmente di tenere a bada i sentimenti e nello stesso tempo di adattarsi alle esigenze quotidiane.
Ella si comporta come se avesse collocato fuori da se stes­sa il proprio mondo emotivo, e le emozioni che ne derivano le considera perciò “voci provenienti dall’esterno”, eventualmen­te dall’appartamento vicino, ma anche dalle prese della cor­rente o del telefono o dagli scarichi dell’acqua, se non dai muri stessi (e arriva perciò a strappare tutto, a sradicare i sanitari o a fare buchi nel muro per trovarne l’origine e, ov­viamente, cancellarla).
E’ questa la struttura nota come schizofrenica, poiché si ha l’impressione che il soggetto sia diviso in due.
Ma è sostanzialmente la stessa cosa anche sotto la deno­minazione conosciuta come paranoica: le “voci” provenienti dal proprio mondo affettivo rinnegato sono attribuite agli al­tri che, fisicamente e persino attraverso radio e televisione, ne diventano i banditori, e contro i quali è possibile mettersi per rinforzare la negazione.
Come si vede, al fatto emotivo (sentimento), si sostituisce un fatto fisico (la “voce”): il fatto emotivo può essere così ge­stito come un fatto fisico, una “qualità” viene pertanto trat­tata come se fosse una “quantità”.
Queste forme, piuttosto primitive, ci mostrano abbastan­za chiaramente che cosa sia una “struttura di sopravvivenza”, e come consenta di mantenere viva la sensibilità emotiva nel momento stesso in cui viene negata. Essa infatti, mentre il soggetto conduce drasticamente l’azione di negarla, non an­nulla l’affettività.
Se una persona cercasse di annullare, definitivamente, la propria affettività, andrebbe incontro alla morte per suici­dio, in quanto senza sentimenti non c’è ragione di vita.
Le strutture di sopravvivenza più evolute permettono in­fatti una convivenza quasi normale con gli altri, poiché con­sentono di mimetizzarsi meglio dietro una apparenza di nor­malità. Non ci sono dubbi che siano, per certi versi, meno condizionanti, sul piano sociale, ma è certo che non differi­scono, per gravità, da quelle fin qui descritte.
Si vedano le strutture di sopravvivenza che utilizzano l’erotismo: sono fra le più riuscite, ma anche fra le più ambi­gue, poiché una persona che si rende disponibile, fisicamen­te, al rapporto con un’altra, si stenta a credere che lo faccia soltanto per far seguire all’eccitazione fisica il momento del­l’orgasmo. Invece è proprio in questo modo che la persona malata colloca altrove da sé il sentimento: negandone l’esi­stenza e sostituendo, come al solito, al fatto emotivo (l’amo­re), il fatto fisico (l’accoppiamento e l’orgasmo) appunto.
Nel caso della struttura omosessuale, addirittura, il rap­porto d’amore primario negato con il genitore omologo, viene surrogato attraverso il rapporto fisico con una persona del
medesimo sesso. Non è un caso che i portatori di struttura di sopravvivenza erotica facciano sesso ma dicano di “fare l’amore”: come a ribadire che il sentimento – per il momento è assente ma, forse, un giorno, potrebbe tornare.
In una bella pellicola di Kieslowsky, ne “I dieci comanda- monti”, c’è un ragazzo guardone, peraltro orfano di entrambi I genitori, attratto da una dirimpettaia che ha i suoi incontri erotici con la luce accesa e le tende aperte.
Quando finalmente si incontrano, la donna fa avere l’or­gasmo al ragazzo e gli dice: “L’amore è questo!”. Si tratta di due psicotici. Ma mentre per la donna l’affermazione è la negazione del sentimento, lì e in quel momento, ma collocabile altrove, per il ragazzo suona come esclusione, impossibilità totale di sentimento per sé. Fugge via, e tenta il suicidio.
La malattia mentale, all’origine, è uguale per tutti, in quanto causata dalla negazione della propria sensibilità emotiva, e si differenzia soltanto successivamente, a seconda della strada che una persona sceglie per non soccombere.
Essa consiste quindi nel distacco emotivo dalla realtà (l'”anestesia del sentimento”) messo in atto per proteggersi da una fonte, di dolore, troppo grande perché la si possa sopportare. Si sa che amare significa realizzarsi pienamen­te, ma – nello stesso tempo – anche prepararsi a soffrire, in quanto tutto ciò che può riguardare, di negativo, le persone che amiamo, ci colpisce profondamente.
Per evitare di soffrire, occorre necessariamente rinuncia­re all’amore, anestetizzarlo. Ma l’ “anestesia del sentimento” produce una grave deprivazione sensoriale, in quanto, per effetto di essa, restano inutilizzate tutte le percezioni prove­nienti attraverso l’affettività. L’abbandono della sensibilità emotiva viene infatti attuato appoggiandosi quasi esclusiva­mente alle funzioni razionali, e investendo tutto nella moda­lità economica, non perché al soggetto sia mancata l’espe­rienza sentimentale primaria (i malati psichici danno questa impressione, poiché parlano e si comportano come se non avessero mai conosciuto l’amore di un genitore: in compen­so, però, manifestano una comprensibile amnesia su tutta la loro infanzia), ma per essere certi di impedire al sentimen­to di svilupparsi oltre un ben preciso limite invalicabile.
Causa della malattia mentale è la negazione della propria sensibilità emotiva, cui si ricorre di fronte a troppo grandi difficoltà affettive. La malattia mentale è l’effetto dell'”anestesia del sentimento”, che produce gravi distorsioni percettive, cui una persona cerca di ovviare con “strutture di sopravviven­za”, messe in atto impiegando la sola modalità di rapporto di natura economica, per impedire alla modalità di natura simbiotica di manifestarsi oltre il sopportabile.

La sintomatologia del disturbo
Il primo problema è pertanto quello di riconoscere lo stato di patologia psichica. Quali sono i sintomi?
Per riuscire a cogliere adeguatamente la sintomatologia psicotica occorre un addestramento specifico all’ascolto empatico. Come sappiamo infatti il disturbo si manifesta prevalentemente nella comunicazione dei sentimenti. Il pri­mo impatto con la persona disturbata è rappresentato per­ciò dall’impossibilità di un vero scambio emotivo. Ciò vuol dire che nell’interlocutore dello psicotico le emozioni vengo­no esaltate, in quanto egli è capace di ricevere le induzioni provenienti dalla persona disturbata.
Poiché invece quest’ultima è praticamente impermeabile alle comunicazioni emotive altrui, solo un addestramento rigoroso consente di prendere le distanze dall’ondata di emo­zioni da cui si è investiti, e di riuscire a leggere in esse quello che ella vuole comunicare. Si tratta, non dimentichiamolo, di una persona malata e, come tutti i malati, si comporta da perfetta egoista, vuole essere al centro dell’attenzione e, per ottenerlo, è disposta a tutto: a fingere, a ricattare, a sedurre, a sfruttare i punti deboli altrui senza scrupoli. E non è mini­mamente in grado di preoccuparsi degli altri, e men che meno di facilitare la comprensione dei motivi reali del proprio disa­gio all’interlocutore.
Accanto a lei si possono provare grande commozione, vo­glia di piangere, struggimento infinito (anzi, lo “struggimen­to” lo si sente soltanto per una persona psicotica). Ma non c’è risposta: dall’altra parte c’è il muro, anche se accom­pagnato, almeno inizialmente, da una certa cortesia. Ci può essere anche dialogo, talora molto acuto sul piano intellet­tuale, ma sempre con scarsa o nulla empatia.
Con una persona disturbata psichica si può avere l’impressione di stare persino bene, ma come? In una specie di campana di vetro, in uno spazio ovattato dove gli stimoli esterni arrivano attenuati. Manca la capacità di mettersi in discussione. E’ del tutto assente la disponibilità ad accettare i cambiamenti attorno a sé.
Ma anche non accetta di cambiare: produce, per salva­guardare se stessa, e induce, negli altri intorno a sé, un “bloc­co psicotico”, una sorta di incapacità, di impotenza a cam­biare, accompagnata da violenta ira (repressa, e che quindi passa in chi le sta vicino provocando discordia, litigi, conflit­ti tanto assurdi quanto immotivati), di chi vorrebbe cambia­re la propria vita, evolversi, ma non trova mai il momento adatto per mettersi in moto.
Nella struttura di sopravvivenza, nota come “autismo”, si vede rappresentata fisicamente molto bene questa incapaci­tà a cambiare: la persona sta praticamente rinchiusa in un mondo tutto suo, nel quale è estremamente difficile entrare, e dal quale non esce mai.
Per avere un’idea di che cosa significhi il “blocco psicotico”, occorre fare riferimento alla condizione di guerra, dove tutto sembra muoversi, ma dove in realtà la vita, oltre che in co­stante pericolo, è proprio ferma. Un quadro efficace di bloc­co psicotico lo dà Luis Bunuel nella pellicola “L’angelo sterminatore”, dove un gruppo di amici, riuniti a cena dopo il teatro, non riesce più a uscire da una salone, peraltro pri­vo di porte. Né, dall’esterno, i soccorritori riescono a infran­gere quel muro invisibile che li tiene isolati.
Il tutto, nella pellicola e nella realtà, avviene per lo più in un contesto di apparente normalità. E’ abbastanza scontato che lo sforzo, con cui la persona malata di mente cerca di sopravvivere, si traduca anche nel tentativo di darsi almeno una apparenza di normalità.
Tocca al sano leggere, oltre la facciata, la richiesta di aiu­to che traspare sempre, e sempre in termini ultimativi, da emergenza, quando anche (o meglio: soprattutto) le cose van­no avanti allo stesso modo da anni, per cui giorno più, o giorno meno, non cambierebbe comunque gran che. Però la fretta di intervenire che si prova con una persona disturbata è sempre all’insegna di una urgenza spasmodica, in contra­sto con l’anaffettività, ai limiti dell’indifferenza, che manife­sta, e che compensa con l’acuirsi delle facoltà razionali, dando luogo a fenomeni caratteristici come la “furbizia”, gestiti senza soverchio scrupolo.
Il riso e il pianto sono asincroni, non hanno una corri­spondenza puntuale, ma avvengono o in eccesso, o in difet­to, o fuori luogo, rispetto alle cause che li provocano, e la cosa può sembrare persino simpatica. Ma si parla anche di riso, o di pianto, “isterico”: l’immagine più aderente è quella del bimbo piccolo, che ride quando qualcuno cade per terra (o finge di cadere: e infatti i pagliacci, negli spettacoli per bambini, sfruttano sovente questo tipo di trovata per farli ridere), o piange perché gli viene tolto di mano un oggetto.
Nel caso della malattia mentale i comportamenti non sono tanto “infantili”, quanto “filiali”. In questo aspetto si trova il messaggio di richiesta d’aiuto, l’indicazione per realizzare l’in­tervento di ripristino. E infatti si chiede di essere aiutati a ritrovare l’accesso al rapporto d’amore con il genitore omolo­go.
I sintomi della malattia mentale appaiono evidenti con un apposito addestramento all’ascolto empatico. Essi sono l’impermeabilità emotiva la prevalenza della modalità di rapporto di natura economica e la rigidità di fronte a determinati cambiamenti. “Anestesia dei sentimenti”, “strutture di soprav­vivenza” di natura economica e “blocco psicotico” sono spesso mimetizzati nella “apparenza di normalità”. Si acuisce la ca­pacità razionale, a compensare la ridotta capacità emotiva dando luogo a fenomeni come la “furbizia”, pianto e riso asincroni, atteggiamenti apparentemente infantili ma in real­tà “filiali”.

Psicosi endogena e psicosi esogena
Si è visto come si manifesta la malattia in un soggetto con suoi propri disturbi dell’affettività, vale a dire in un soggetto malato di psicosi endogena, che trae origine dalle vicende interne a lui, dalla sua storia.
Ora vediamo come si presentano i sintomi della malattia in un soggetto sano, che li assume per contagio dalla vici­nanza con uno psicotico, cioè da uno affetto da psicosi endogena.
La sua è pertanto una psicosi esogena che trae origine da vicende esterne, al di fuori di lui e della sua storia, ma che si manifesta in lui, nei suoi comportamenti, per induzione emo­tiva, per quello che Cari Gustav Jung chiamò “contagio psichico”.
Di che cosa si tratta? Già i primi psicanalisti si accorsero, e lo pagarono sulla loro pelle talvolta a carissimo prezzo, come, nel lavoro con le persone disturbate, “agissero” – si comportassero cioè – secondo i contenuti psichici dei loro analizzanti. Si parlò allora di “transfert” (di contenuti psichici che i malati di mente “trasferivano”, o meglio “proiettavano” sull’analista) e di “controtransfert”, come veniva chiamata la risposta “agita” dall’analista.
La scoperta delle induzioni ha chiarito come gli stati emo­tivi, che lo psicotico sottopone ad anestesia, si trasmettano comunque alle persone sane intorno a lui. Egli riesce dun­que a estraniarsi dai propri sentimenti, e appare inoltre, a chi ha a che fare con lui, così poco coinvolto in essi da favo­rire ulteriormente in quest’ultimo la credenza che, quanto sta sentendo, siano stati d’animo suoi propri, e non invece – come avviene in realtà – indotti dallo psicotico. C’è da ag­giungere che tali contenuti influenzano la sfera emotiva del ricevente, sia esasperando stati d’animo già presenti in lui, a livelli però trascurabili, sia introducendo condizioni emotive del tutto nuove.
Facciamo due esempi.
Tutti, nel corso di una giornata, siamo spinti dall’appetito a nutrirci: ma sotto l’effetto di una induzione psicotica ci si può sentire affamati, desiderosi di determinati cibi in quan­tità e di qualità del tutto estranee alle nostre normali esi­genze.
Per quanto riguarda invece un contenuto nuovo, può av­venire che l’incontro con uno psicotico ci lasci addosso una profonda sfiducia in noi stessi e nel nostro lavoro, un senso di inutilità verso quello che stiamo facendo, del tutto immotivati, stante la fiducia sperimentata nelle nostre capa­cità lavorative e la motivazione che da tempo ci spinge a quella attività.
Nell’attività di ricerca condotta presso il CIRSOPE è quin­di naturale pratica quotidiana riscontrare negli operatori consistenti presenze di induzioni emotive a livelli patologici, pro­venienti dai casi che stanno seguendo.
Per guadagnare tempo nel nostro lavoro, abbiamo deciso di compilare un elenco delle più frequenti e ogni operatore individua, nel prospetto prestampato, una o più volte al gior­no, a seconda della complessità del caso seguito, quelle che in quel momento si sente addosso. Si arriva a questa pratica dopo un addestramento all’ascolto empatico di almeno due anni, e diventa essenziale impiegarla per rendersi conto di quello che il malato comunica.
L’addestramento all’ascolto empatico, vale a dire all’ “ana­lisi delle induzioni”, nella nostra scuola viene portato a un livello di approfondimento tale, fino a giungere alla capacità di risalire, dalle induzioni raccolte, al quadro effettivo della patologia presente nella persona che viene seguita.
La malattia psichica, attraverso le induzioni, trasmette a quanti sono contigui al malato i contenuti emotivi, e perciò disturbanti, che questi porta con sé. Contrariamente a quel­lo che si potrebbe pensare, non si tratta di sentimenti molto originali e nemmeno motivati da particolari conflitti interio­ri: la malattia psichica, vale la pena ricordarlo, è in sé un disturbo molto banale, in quanto esaspera, portandoli al parossismo, stati emotivi normalissimi, i cui naturali risvolti negativi il malato non è abituato ad affrontare, e dei quali ha pertanto un timore esagerato.
Essi dunque vengono trasmessi agli altri non da soli, ma con la componente di terrore, per la paventata sofferenza, che lo psicotico associa loro. Ciò li rende distruttivi in un soggetto impreparato a riconoscerli e a ridimensionarli in sé. Nel momento in cui li crede propri, e li prende per motivati, è difficile per lui sottrarsi alla logica conseguenza, di attribuire a fatti e a persone reali quanto, nello psicotico, è riferito a cause immaginarie. Questa è la ragione per cui un numero così alto di operatori, in ambito psicologico e psichiatrico, manifesta disturbi dell’affettività talvolta molto gravi.
Si tratta di ansia, e di angoscia, così forti da mozzare il respiro, da accelerare o deprimere il battito cardiaco, da pro­vocare amnesie improvvise, attacchi di panico, sentimento di fallimento totale, erotismo esasperato, attaccamento im­provviso agli oggetti o alle persone come se fossero oggetti anch’esse, fino ad arrivare a gravi somatizzazioni come ulce­ra gastrica, tachicardia, aumento della pressione sanguigna e persino stati di preinfarto.
La cosa non finisce lì: una volta convintosi che siano suoi propri, anche desideri, comportamenti, credenze, che il ma­lato censura, vengono “agiti” dall’operatore allo stesso modo. Egli se li ritrova in sé, e gli riesce molto difficile nutrire anche il minimo dubbio che si tratti di materiale che non gli appar­tiene: ha l’impressione al contrario che sia lì da sempre. L’aspetto tragico è proprio questo: gli operatori sprovvisti di strumenti psicanalitici “agiscono” con estrema naturalezza comportamenti non soltanto a loro estranei, ma che anche disapprovano, o cui non sono interessati, poiché la loro ca­pacità di giudizio è radicalmente compromessa dalla inva­sione, ormai priva di filtro, dei sentimenti che il malato indu­ce loro, insieme a tutto il resto.
Le induzioni psicotiche modificano anche i ricordi e, per­tanto, la persona induzionata incontra gravi difficoltà a veri­ficare, sulla base della propria esperienza, quello che sta fa­cendo. Nell’ “agire” sotto induzione psicotica, compie errori grossolani di giudizio, non riesce a valutare correttamente i rischi che sta correndo, come se fosse del tutto sprovveduta e inesperta.
Un esempio tipico di effetto deformante delle induzioni è quello del “fanatismo”. Tutti vediamo come, persino in occa­sione di gare sportive, in cui è arcinoto a tutti che i conten­denti si affrontano per mestiere, tra gli spettatori possano scoppiare delle risse addirittura con morti e feriti. Se la cosa si verifica in contesti già di per sé abbastanza estranei ai reali interessi degli spettatori, come sono gli spettacoli spor­tivi, figuriamoci cosa succede allorché il fanatismo si dà va­lori politici o religiosi.
Nonostante anche qui le motivazioni siano del tutto po­sticce e assurde, esse finiscono per apparire normali a cau­sa della presenza, nel gruppo, di psicotici che – pur restando opportunamente ai margini della vicenda – inducono negli altri i contenuti capaci di deformare una corretta visione della realtà.
Ci sono poi gli effetti delle induzioni sul personale che si prende cura degli psicotici, vera e propria malattia pro­fessionale. Classico è il caso di chi agisce il bisogno di amare ed essere riamato dal genitore omologo: poiché prova questo sentimento in presenza della persona disturbata, l’operatore ben presto si convince di essere “innamorato” di lei, e arriva
persino a sposarla, per una sorta di “attrazione fatale”, po­nendosi così nell’impossibilità di far fronte al suo compito, che è semmai quello, prima di tutto, di guarirla. Altrettanto diffuso è l’altro fenomeno, ben più sconvolgente, degli opera­tori che diventano, per induzione, a loro volta psicotici, cioè affetti da psicosi esogena.
Ma se nei confronti degli operatori l’influenza della psicosi appare così massiccia, è piuttosto logico aspettarsi un effet­to ancora più devastante delle induzioni in soggetti, di gran lunga meno protetti, e meno addestrati a farvi fronte, quali sono – a esempio – quelli in età evolutiva.
Abbiamo infatti riscontrato come, attraverso un compa­gno di gioco, o di scuola, o addirittura da un insegnante portatore di “disturbi dell’affettività” (cioè affetto da una psicosi endogena), i bambini possano mutuare veri e propri stati psicotici anche piuttosto seri, capaci di produrre gli ef­fetti di una psicosi – una psicosi esogena, le cui cause sono al di fuori di lui – e portarne le conseguenze tutta la vita, esattamente come se fossero stati contagiati da un agente patogeno fisico.
Dal contagio fisico, quello psichico si distingue tuttavia per un aspetto non secondario. Mentre il contagio fisico fa sì che il soggetto abbia in sé la causa stessa della malattia, e questa può essere riconosciuta in lui e lì stesso affrontata, nel caso del contagio psichico il soggetto non è portatore delle cause della malattia, ma soltanto degli effetti: che bastano per farlo stare male, ma sono del tutto insufficienti per con­sentire di risalire a cause che appartengono a un’altra per­sona, a una realtà a lui estranea.
A seconda della diagnosi, perciò, ben diverso si presenta l’approccio nei due differenti casi.
Come si arguisce facilmente, quando ci sono sintomi di problemi di natura endogena, non appartenenti al soggetto in analisi – ed è questo il caso classico dell’operatore che incomincia a manifestarli poco dopo l’assunzione in carico di una persona disturbata – è pericolosamente inutile con­centrare l’attenzione su quei problemi, anche se si manife­stano in forma talmente virulenta da attrarre tutta l’atten­zione possibile.
C’è il rischio concreto di confermare l’analizzante nella convinzione, di solito scontata, che i problemi in parola appartengano a lui, con quali conseguenze è facile immagina­re. Intanto diventano problemi insolubili, poiché se ne cerca la fonte in lui, quando essa è altrove. Gli effetti devastanti su di lui diventano poi effettivi soltanto se egli non li riconosce – entro un tempo ragionevolmente breve – come frutto di in­duzione, proveniente da una persona disturbata, ancorché dall’invidiabile apparenza di normalità.
L’approccio alla psicosi esogena può infatti contare sulla sostanziale sanità mentale del soggetto, e valersi di essa per orientare l’intervento a riconoscere la fonte delle induzioni, con la consegna contestuale all’analizzante della strumentazione psicanalitica necessaria per farvi fronte.
L’esposizione alla psicosi altrui, se è prolungata nel tem­po, può condurre all’accettazione come propri di contenuti psicotici così profondamente, da essere difficile in seguito ricondurli alla loro origine. Frattanto, la persona induzionata può avere subito danni anche gravi, nella convinzione di avere tendenze ed esigenze che in realtà non le appartengono, ma che agisce come se fossero proprie.
L’aspetto più sconvolgente della psicosi esogena è rappre­sentato appunto dai danni conseguenti ad azioni che, per lo più, nello psicotico sono contenute a livello di desideri cen­surati e di aspirazioni represse, vuoi perché prevedono ele­menti di affettività che egli respinge, vuoi perché nella sua lucidità razionale egli comprendere essere di pericolosa at­tuazione, vuoi infine perché egli è sostanzialmente bloccato, nell’agire, dalla malattia psichica.
Un esempio significativo lo si può osservare nelle induzio­ni che influenzano la sfera dell’erotismo: può avvenire che uno psicotico, con struttura di sopravvivenza di tipo omo­sessuale, induca intorno a sé impotenza nei rapporti erotici eterosessuali; o che un altro, con struttura di sopravvivenza da impotente, induca negli altri una vera e propria frenesia erotica.
E’ una realtà complessa: lo psicotico, consapevole che la propria esistenza scorre sul filo di un rasoio, dell’influenza che esercita sugli altri può fare un uso che, per l’anestesia del sentimento, appare a dir poco spregiudicato. Fra i casi che la cronaca ci sottopone ogni giorno, prendiamo quello illustrato nella pellicola di Christopher Hampton, dedicata alla pittrice Inglese Dora Carrington (Carrincjton, 1995), “in-
dotta” consapevolmente dallo scrittore omosessuale Lytton Strachey, a “innamorarsi”, poco più che diciottenne (ad agi­re cioè il suo bisogno di essere amato) e ad andare a convive­re con lui. La giovane, dal momento in cui è affetta da psicosi esogena, diventa sorda a qualsiasi richiamo al buon senso, e non solo accetta come normale fungere da esca per gli uomi­ni che interessano al compagno, ma fa anche propria la sua struttura di sopravvivenza, consistente nel cercare sempre nuovi amanti per rinnovare l’attrazione erotica man mano che si esaurisce. Nonostante il matrimonio con un altro, non riuscirà mai a liberarsi dal rapporto patologico e alla morte di lui si suiciderà.
Ho citato la struttura di sopravvivenza che utilizza l’erotismo, ma lo stesso vale per quella che riguarda l’ira, o la gola, o la sete di soldi o di potere: tutta la gamma dei com­portamenti connessi all’anestesia del sentimento.
L’apparenza di normalità favorisce l’induzione, da parte della persona disturbata di comportamenti patologici in colo­ro che vivono in contiguità con lei, e li assumono come propri, senza rendersi conto di “agire” al di fuori delle proprie effettive necessità, e della propria esperienza come se fossero im­provvisamente diventati sprovveduti e inesperti Dalle indu­zioni psicotiche traggono origine fenomeni, talvolta gravemen­te distruttivi per chi ne è oggetto, come nel caso della follia degli operatori psicologi e psichiatrici. Si parla allora di psicosi esogena, in quanto la causa di essa si trova all’esterno della persona che ne è affetta. L’induzione prolungata nel tempo è in grado di condizionare in forma pressocché permanente la vita di chi ne assume il contenuto come proprio. L’approccio alla psicosi esogena può contare sulla sanità mentale dei sog­getti, e quindi sulla possibilità di consegnare loro strumenti psicanalitici al cui utilizzo essi stessi sono in grado di provve­dere efficacemente.

Come si guarisce dalla malattia mentale
Abbiamo visto che la malattia mentale colpisce le capaci­tà emotive della persona; abbiamo visto anche come, per sopravvivere, una persona possa mettere in atto delle “strutture di sopravvivenza”, basate sulla modalità di rapporto di
natura economica, a compensazione del mancato utilizzo di quella di natura simbiotica. Come riportare, la situazione, al suo naturale equilibrio fra modalità economica e modalità simbiotica? La psicanalisi è sempre stata considerata “ana­lisi del profondo”: oggi però possiamo parlare più propria­mente di “analisi del sentimento”, vale a dire di lavoro teso a restituire al soggetto le proprie capacità affettive. La seduta, individuale (sul lettino o di fronte allo psicanalista), di cop­pia, o con il genitore omologo, quasi subito ha richiesto l’ado­zione di rigorose precauzioni, che consentissero di “miniaturizzare” il rapporto fra analizzante e analista, e quindi anche lo scambio emotivo. L’assenza di ogni rapporto ester­no alla seduta fra analizzante e analista pone la condizione essenziale che consente di sviluppare, gradualmente e sen­za rischi eccessivi (in fondo l’analista è e rimane uno scono­sciuto), una relazione emotiva che, grazie alla situazione iperprotetta della seduta medesima, rimane in termini mi­croscopici. Il lavoro analitico mette sotto la lente di ingrandi­mento questo microcosmo emotivo, e l’analizzante può speri­mentare senza pericolo rischi e possibilità della modalità di natura simbiotica.
Ben presto tuttavia si è capito che il trattamento indivi­duale, vale a dire l’analisi nel rapporto tra analista e analiz­zante, che si presenta in seduta da solo, è produttiva per un numero di soggetti limitato, per problemi e per età, e real­mente risolutiva forse soltanto per coloro che siano induzionati dalla contiguità con malati di mente veri e pro­pri, per quel fenomeno che, come abbiamo visto, Jung ave­va chiamato “contagio psichico”. La scarsità dei risultati ha indotto perciò gli analisti, a più riprese, a ricercare modalità più efficaci, specie per i soggetti allora considerati più gravi, chiamati “psicotici”, per distinguerli da quelli che appariva­no meno gravi, i “nevrotici”.
Oggi abbiamo scoperto che la gravità del disturbo dipen­de esclusivamente dalle effettive possibilità di recupero, vale « dire dalla presenza fisica o meno del genitore omologo, dal livello di cronicità, dall’integrazione sociale del disturbo, dal consolidamento dell’apparenza di normalità, dalla disponi­bilità a collaborare del contesto, dal coinvolgimento nella malattia del soggetti circostanti sotto induzione. I compor­tamenti manifestati, infatti, derivano semplicemente dalla
“struttura di sopravvivenza” impiegata. Per questo motivo, per essere cioè la gravità collegabile piuttosto alle risorse esistenti intorno alla persona malata, che non a quelle pre­senti in lei, può risultare più facile il recupero di un soggetto che non riesce a lavorare e dichiara di “sentire le voci” (il cosiddetto “schizofrenico”), che non quello di uno buon lavo­ratore, ma dedito, sia pure patologicamente, a una attività socialmente accettata (per esempio all’accumulo di denaro, al successo, alle “conquiste” erotiche).
Consideriamo “psicosi” il disturbo in quanto tale, in tutte le sue forme. Sono pertanto affetti da psicosi coloro che, di­rettamente o per induzione, presentano disturbi dell’affettività. La vecchia distinzione, fra psicotici e nevrotici, era basata sulla maggiore o minore evidenza del disturbo, e non sempre rispecchiava la minore o maggiore possibilità di guarigione. C’è una differenza sostanziale, in ogni modo, fra chi è affetto da disturbo endogeno (cioè sorto nel corso della propria storia) e i soggetti induzionati, affetti da disturbo esogeno (ammalatisi per contagio psichico, cioè sotto indu­zione psicotica proveniente da un componente del loro con­testo, affetto da disturbo endogeno). Infatti, a seconda del tipo di disturbo occorre seguire la metodica appropriata e, in particolare, nel caso di psicosi esogena, agire sulla vera fon­te del disturbo, sovente così ben mimetizzata da risultare di difficile accesso.
La necessità di assumere in carico, soprattutto, soggetti affetti da psicosi endogena, ha portato noi alla ricerca di stru­menti adatti per poter lavorare. Abbiamo identificato quindi, nel rapporto d’amore primario tra figlio e genitore omologo, l’esperienza di fondo da dove ogni persona trae il riferimento emotivo fondamentale, quello sul quale costruisce tutto il proprio equilibrio psicofisico e dal quale trae la certezza della propria identità personale. Abbiamo sperimentato per venti­cinque anni la modalità di lavoro con in seduta padre e fi­glio, madre e figlia. Quando sono abbastanza piccoli, mettia­mo semplicemente i figli in braccio al genitore. Quando sono adulti, li facciamo stare abbracciati più volte per seduta.
In realtà non si tratta di un abbraccio, ma di un gesto anti­co: quello con cui il genitore teneva in braccio il neonato, soste­nendogli con un braccio la testa ancora incapace di reggersi diritta, e sorreggendolo sull’altro.
I risultati sono risolutivi. Si tenga conto inoltre che per ottenerli sono sufficienti sedute quindicinali o, al più, setti­manali, e quindi con costi estremamente ridotti. Qualsiasi analista, con una solida preparazione, è in grado di sperimentare da solo questa metodica, e di verificarne egli stes­so l’efficacia. Ci sono anche casi così gravi, per cui non è semplice ottenere che i figli entrino anche solo in contatto fisico con il genitore: ma non è un impedimento. Per lo più provvede da sé il genitore, dentro o anche fuori seduta, quan­do si presenta il momento propizio per una carezza, per rim­boccare le coperte del letto, per un gesto affettuoso. Non è compito dell’analista insegnare al genitore come si fa: sarebbe come voler insegnare ai gatti ad arrampicare. Per quanto esperto sia, egli non arriverebbe mai alle soluzioni, alle vie d’uscita che solo l’amore fra genitore e figlio è capace di tro­vare. Il rapporto d’amore primario resta pertanto l’unico luogo empatico dove il soggetto, emotivamente deprivato, si ri­conosce capace di utilizzare i sentimenti, di scongelarli dall’anestesia in cui, in attesa di tempi migliori per riportarli, con se stesso, alla vita, li aveva avvolti.
Quando il genitore non ci fosse più, la guarigione è ancora possibile, poiché l’analisi è sempre dell’esperienza storica  d’amore tra figlio e genitore, e non di quella contemporanea. Non è pensabile fare da adulti un’esperienza primaria d’amo­re, anche perché, se il rapporto d’amore manca all’inizio, si muore: l’analizzante è vivo, e quindi l’esperienza d’amore c’è stata. I disturbi sono legati alle interferenze successive nel rapporto, fino a produrre la reazione di anestesia del senti­mento; si tratta allora di recuperare quello che c’è stato, non di creare qualcosa di nuovo. Ecco perché, in assenza del genitore, il trattamento è più complesso, ma i risultati  raggiungibili ugualmente. I maggiori vantaggi si hanno quan­do almeno un parente del medesimo sesso, una sorella o un fratello, meglio se maggiori d’età del soggetto in analisi (ma anche zie e zii, e persino cugine o cugini omologhi) è entrato nella seduta. Resta il problema di chi non ha nessuno. Sono casi rari, ma ci sono, ma non sono affatto tutti disperati. Spesso hanno risorse insospettabili. Sono tuttavia l’evidenziatore di quanto sia urgente una azione di preven­zione e di igiene mentale su ampia scala.
Si guarisce dalla malattia mentale ripristinando l’agibilità della modalità di rapporto di natura simbiotica, basata sul­l’esperienza di rapporto d’amore avuta con il genitore omolo­go, nei primi mesi di vita. La presenza in seduta del genitore stesso consente la certezza del ripristino. Anche quando il genitore non ci fosse più la guarigione è possibile poiché si lavora sull’esperienza storica sulle testimonianze di essa e non su quella attuale.

L’igiene mentale e la prevenzione
Come qualsiasi altra malattia, anche quella che colpisce le facoltà emotive della persona può essere prevenuta con una apposita profilassi, e con misure efficaci di igiene men­tale.
Da quanto detto sin qui, la prima prevenzione consiste nel proteggere dalle interferenze esterne il rapporto primario tra figlio e genitore omologo, garantendo così il costante ac­cesso del figlio all’eredità d’amore che ha ricevuto nei primi mesi di vita. In questo, sono determinanti tutti gli educatori esterni alla famiglia, e in particolare coloro che operano nel­la scuola, a cominciare dagli asili nido e dalle materne.
Essi sono in un ruolo che consente di svolgere un’azione preventiva di grande efficacia, allorché dotati degli strumen­ti necessari non tanto per evitare di sostituirsi (come peral­tro avviene oggi in tutta buona fede) ai genitori, quanto per dare un contributo attivo alla protezione del rapporto prima­rio dalle interferenze. Mentre non servirebbe sostituirli con altrettanti analisti psicologi – cui mancherebbe la competen­za didattica – fornire gli insegnanti degli strumenti psicana­litici adatti significa completare la loro preparazione, valoriz­zandone l’esperienza e la specifica professionalità.
Una cura altrettanto importante è quella diretta a preve­nire la formazione di coppie patologiche, favorendo l’entrata in analisi dei futuri coniugi. Anche se la presenza di un co­niuge disturbato non è di per sé causa di malattia mentale (ma è pur sempre come una porta aperta all’ingresso delle interferenze esterne, data la maggiore difficoltà di questo tipo di genitori nel garantire una protezione efficace dei figli), è facilmente intuibile che affrontarne i problemi prima della convivenza, significa migliorare notevolmente la qualità del
rapporto che si sta sviluppando. La gestione della gravidan­za, del parto e dell’allattamento, nonché dell’impatto con le eventuali malattie dei figli con l’esterno, rappresenta per i genitori un impegno tanto più gratificante quanto maggiore è la consapevolezza degli obiettivi, e ciò si può raggiungere con una più adeguata preparazione della coppia a ciò che l’aspetta.
L’igiene mentale e la prevenzione, alla luce delle nostre sco­perte, possono essere garantite come per tutte le altre malat­tie, attraverso la diffusione dell’uso di strumenti psicanalitici tra gli educatori in generale e tra gli insegnanti in particolare, e con la preparazione su base scientifica delle coppie agli im­pegni familiari.

Gli interventi alle giornate di studio
Il presente lavoro raccoglie e arricchisce le relazioni di due giornate di studio (aprile 1996, Milano, e maggio 1996, Pavia) su “Bambini e adolescenti che soffrono. Il disagio psichico in età evolutiva: come si riconosce, quali le cause e le possibilità di cura”, organizzate dalla Cooperativa Psynergie, Milano, che hanno offerto testimonianze che ri­guardano gli aspetti più salienti fra quelli citati sin qui.

    a. Bambini e adolescenti psicotici.
Nella prima parte, un nutrito gruppo di operatori con casi di bambini e adolescenti disturbati ha raccontato le proprie esperienze, illustrando le difficoltà ma anche le soluzioni adottate.
E’ il caso di Carmen Greco e Maurizio Molteni dell’Asso­ciazione Demetra, e di Fabrizio Forzan, Emanuela Baschieri, Antonella Moggi, Maria Casiraghi, Giovanni Ponzoni e Mas­simo Fusaro della Cooperativa Psynergie.

    b. Il bambino in ospedale.
Quindi si è trattata la condizione del bambino in ospedale, con le relazioni della dott.ssa Giuliana Filippazzi, dell’A.B.I.O., Associazione per il bambino in ospedale, e del dott. Gian Filippo Rondanini, primario di pediatria e neonatologia in un reparto modello creato da lui e dalla sua équipe, con la collaborazione del volontari dell’A.B.I.O. all’ospedale di Vaprio d’Adda (MI).

    a. Donna che lavora e prevenzione primaria.
E’ stata poi la volta della signora Alba Posadino Tarasconi, presidente della FIDAPA Federazione Italiana Donne Arti Professioni Affari, sul delicato problema della madre che la­vora, costretta ad affidare ad altri i figli, o a rinunciare al lavoro, e del dott. Giorgio Mancuso, psicanalista, che insieme alla moglie Sabine Meyer, rappresen­tante de La Leche League, sezione italiana, sulle implicanze e sull’importanza della prevenzione primaria relativa alla gravidanza, al parto e all’allattamento materno.
    b. Guarire si può.
Dopo la visione della pellicola (a Milano: “Family Life”, di Ken Loach; a Pavia: “La voce del silenzio” di Guy Lessac, riletti alla luce delle nostre scoperte), la dott.ssa Laura Izzi ha presentato il volume “Il trattamento delle psicosi in età evolutiva”, nel quale illustra un intervento di gruppo per un caso estremo.
Si è aperto quindi il capitolo istituzionale. Protagoniste della parte pomeridiana sono state così le amministrazioni pub­bliche, le comunità infantili, i servizi delle USSL e la scuola.

    c. Le amministrazioni pubbliche.
Per le amministrazioni pubbliche, alle Stelline è intervenu­ta l’avv. Grazia Maria Dente, assessore ai Servizi Sociali del Comune di Milano, con un’analisi, estremamente lucida e impietosa, della multiforme realtà territoriale nella quale l’En­te Comune si trova a intervenire con compiti di coordina­mento e di collegamento.
Quindi la assistente sociale Maria Luisa Diomede, referente per l’area minori del comune di Bresso (MI) ha tracciato la storia di questi ultimi anni operosi del suo Servizio, nella realizzazione di un progetto specifico per la prevenzione e la riabilitazione dei minori.
A Pavia è intervenuta, per l’assessorato ai Servizi Sociali della Provincia, la dott. ssa Maddalena Viola, con un quadro complessivo degli impegni a favore dei minori assunti dalla Provincia stessa, e dei modi con cui vi sta facendo fronte. In particolare ha illustrato il Progetto Adolescenti, e la scelta di agire principalmente sulla formazione degli operatori, chia­ve di volta per il successo di qualunque iniziativa rivolta a tinti fascia d’età cosi problematica e complessa.
Per il Comune di Pavia l’assistente sociale Francesca Nondrini ha illustrato l’ambito delle competenze della assi- niente sociale, e le linee lungo le quali il suo Servizio sta procedendo, per realizzare iniziative a favore dei minori.

        f. Le comunità infantili.
Un discorso completamente a se stante merita l’esperien­za delle comunità infantili “Villaggi SOS”, organizzazione mon­diale di accoglienza, per bambini senza famiglia, ma non portatori di malattie psichiche. Infatti, è chiaro che un bam­bino con difficoltà familiari ha sicuramente sofferto (e soffre) molto, e quindi ha grandi problemi da risolvere, ma non è detto che abbia messo in atto necessariamente una “aneste­sia del sentimento”. Il caso presentato dal dott. Frese si direbbe quindi una eccezione. La peculiarità dell’esperienza sta nell’aver scelto di dare a una persona disturbata un luo­go dove tornare, a sentirsi protetta, e forse anche a ritrovare la voglia di sorridere.

          g. Le Aziende Unità Socio Sanitarie Locali.
Per l’ambito Aziende USSL hanno prima parlato il dott. Stefano Palazzi, neuropsichiatra infantile, responsabile del­l’Osservatorio Autismo, recentemente istituito dalla regione I Lombardia presso il complesso ospedaliero di Merate, e la psicologa Alda Pellegri, con una relazione sul significato e la funzione dell’Osservatorio, e sul rinnovato interesse per ciò che riguarda la salute mentale dei minori da parte della Re­gione.
Per la USSL 34 di Legnano (MI) è intervenuta poi la psico­loga analista dott.ssa Susanna Cozzi, del consultorio fami­liare di Rescaldina (MI). Ha illustrato come abbiano impo­stata l’attività di prevenzione, con l’effettuare, nei primi tre mesi di ogni anno, una indagine di massa su tutti i bambini che a settembre frequenteranno la prima elementare.
I dati, raccolti attraverso una batteria di prove elaborate In collaborazione con l’Università di Milano, riguardano tut­ta la popolazione di questa fascia di età; sulla base di essi le psicologhe intervengono tempestivamente a riportare alla normalità i soggetti che risultano a rischio.
h. La scuola. Per l’istituzione scolastica la psicologa Antonia Murgo. comandata presso il Dipartimento di Sociologia dell’Università di Padova, e il prof. Ivano Spano, docente di sociologia presso la stessa Università, hanno contribuito con i risultati di una indagine sulle condizioni di salute psicofisica degli allievi delle scuole elementari di un Comune vicino a Padova, effettuata al fine di impostare una prevenzione a tappeto.
I dati proposti evidenziano una molteplicità di patologie, anche gravi, propriamente di tipo psicologico. Ciò lascia im­maginare cosa significhi un intervento fatto ora, quando per buona parte dei casi in esame si è ancora agli inizi, piuttosto che al momento in cui i disturbi fossero diventati cronici.
Mentre infatti si assiste a una massiccia medicalizzazione dei disturbi, anche se esclusivamente psichici, non appare una significativa presenza di azioni dirette a migliorare la situazione da un punto di vista appropriato, sia sul piano individuale che su quello del contesto familiare e sociale. Avere messo in evidenza la situazione è pertanto il primo passo, funzionale allo sviluppo dell’azione preventiva.
Cinque insegnanti infine disegnano il quadro dell’azione educativa, e riabilitativa, praticabile all’interno della strut­tura scolastica.
La dott.ssa Stefania Mella propone un’esperienza di do­cente con strumenti psicanalitici, e ne analizza le effettive possibilità di contribuire significativamente alla crescita, alla maturazione dell’equilibrio psichico dei propri allievi.
I dottori Federica Rovetta e Giovanni Re hanno posto l’at­tenzione sulla collaborazione degli insegnanti con lo psica­nalista, vuoi ai fini di aggiornamento, vuoi per il ricorso a quest’ultimo come consulente.
Per la dott.ssa Anna Maria Perotti si è trattato di utilizzare il momento della lezione domiciliare per realizzare il recupero di un minore a rischio. Infine, l’insegnante di scuola mater­na Maria Casiraghi conclude con il racconto della propria esperienza di lavoro, densa di importanti episodi di malesse­re psicologico espresso dagli allievi, ma accompagnata da ciò che una insegnante, dotata di strumenti psicanalitici, può fare, e che ella ha fatto.
L’impegno che ci aspetta
come si vede, e si può leggere via via nei diversi interven­ti, di seguito pubblicati, le Giornate di Studio, a cui il testo si riferisce, hanno offerto una panoramica a tutto campo di ciò che è possibile fare fin da subito. L’impegno che ci aspet­ta è di proporzioni rispettabili, ma la richiesta di salute men­tale, che sale da tutto il mondo, ovunque ci sia una persona consapevole, ora può essere accolta, poiché finalmente è possibile conoscere dove intervenire, perché e con quali mezzi.
Nell’Ottocento sono stati creati i fondamenti della scienza psicanalitica, impostando i primi programmi di ricerca nel­l’ambito della malattia mentale.
Nella prima metà del Novecento, si sono invece sviluppate soprattutto le tecniche per il trattamento della malattia men­tale. Soltanto a partire dagli anni Settanta, presso il CIRSOPE, Centro Italiano di Ricerca Scientifica Operativa nella Psica­nalisi e nell’Educazione, di Milano, è stata ripresa l’indagine scientifica nella psicanalisi. La formulazione delle nuove ipo­tesi di ricerca e l’impiego di strumenti più consoni all’ambito da indagare, hanno consentito di giungere in breve alla sco­perta della natura, e delle cause, della malattia mentale. Così si è aperta la via al trattamento e alla prevenzione su larga scala.
L’impegno che ci attende, nel Duemila, nasce dalla con­sapevolezza, ormai diffusa in tutti i Paesi civili, di come feno­meni altamente distruttivi di risorse, e di opportunità di cre­scita umana, sociale ed economica, quali guerre, ingiustizie sociali, delinquenza mafiosa, corruzione, inefficienza, narcotraffico, non potrebbero esistere senza il contributo decisivo di nutrite schiere di psicotici, i soli capaci di credere che la soluzione dei propri problemi stia nella distruzione o nello sfruttamento di altri esseri umani come loro. Esso con­siste perciò nel garantire la salute mentale per tutti.
Le difficoltà ci sono, a cominciare dagli effetti che le indu­zioni psicotiche hanno sui comportamenti sociali.
Le richieste dei malati psichici, anche le più assurde (e da loro quasi mai sostenute direttamente o apertamente, per non mettere in pericolo l’apparenza di normalità) vengono fatte proprie e sembrano decisamente ragionevoli a chi è sot­to induzione; oltretutto, una persona induzionata appare
sorda alle critiche, paga dell’approvazione incondizionata del soggetto disturbato che la influenza, e utilizza tutta la pro­pria sanità mentale per rendere credibili e accettabili le azio­ni, anche se folli, che si appresta a mettere in atto.
Ci si rende conto facilmente dell’entità dell’ostacolo, spe­cie quando si pensa a più persone – familiari, amici – schie­rate intorno al malato di mente come un baluardo, ed esse stesse in un ruolo che le fa apparire, oltre che poco ragionevoli, più disturbate del soggetto che proteggono.
E’ una sfida alla professionalità, alla tenacia e alla capaci­tà di scienza. Ma può essere raccolta, e risolta positivamente. I presupposti professionali e scientifici, che richiede, ci sono. Si tratta ormai soltanto della costanza, della tenacia con cui si è disposti a mantenere un impegno che si annuncia duratu­ro e difficile.

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