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GIOVANNA CAMANA, relazione per Cooperativa Cairos

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Il trattamento delle tossicodipendenze offre elementi specifici che si possono portare nel campo della prevenzione e offrire a tutte le persone impegnate nella prevenzione del disagio giovanile, primi fra tutti i genitori.

Quando si pensa al trattamento delle tossicodipendenze credo che l’idea più comune che viene in mente sia quella relativa alla necessità di trovare un sistema per convincere la persona che fa uso di ” sostanze ” a non usarle più.

In questa ottica, balza in primo piano il problema della disintossicazione, per i noti effetti di dipendenza che molte droghe inducono, così che il soggetto che ne fa uso ne ripete sempre e sempre più l’assunzione, sulla spinta, si dice, di un bisogno che è insieme psicologico e, in seguito, fisico, a causa dell’assuefazione.

Senza sottovalutare gli effetti fisici delle varie sostanze che oggi vanno sotto il nome di droghe, si può però affrontare il problema in modo diverso, e, alla lunga, più efficace.

Si può, cioè, prendere piuttosto in considerazione il malessere che ha condotto una persona a usare le droghe come palliativa soluzione a proprie angosce, restandone poi, come si dice, “schiava”.

Il lavoro psicanalitico si rivolge al malessere che sta a monte dell’assunzione di droga: in questo senso è del tutto analogo al lavoro che facciamo insieme ad ogni persona gravemente depressa e alla sua famiglia, per consentirle di uscire dalla situazione in cui si trova.

È un lavoro complesso, che ha caratteristiche specifiche, dovute anche alle conseguenze sul fisico che si sono instaurate nel tempo, ma soprattutto risente, nel suo svolgimento, della lunghezza del periodo in cui la persona è rimasta nello stato di crisi senza sbocco.

Così, del resto, accade anche molti casi in cui il soggetto ha fatto uso lungamente, e fa uso, di psicofarmaci. L’analogia non scandalizzi nessuno: entrambi i tipi di sostanze (gli psicofarmaci e le droghe ) hanno un effetto comune, fra i tanti che sono diversi: quello di attenuare, calmare, la sensazione di ansia, di angoscia, di grave impotenza. Sensazioni che, se fossero prese in considerazione al loro primo apparire, e trovassero un contesto pronto a rispondere in modo efficace alla crisi che si sta manifestando, eviterebbero – come si vede in tanti casi trattati – di diventare sempre più insostenibili e croniche.

A scanso di equivoci ribadisco che non sto mettendo sullo stesso piano gli psicofarmaci – oggi molto diffusi – e le varie droghe: sto solo sottolineando che il lavoro psicanalitico, prendendo in considerazione in un modo suo proprio, il fenomeno della crisi psicologica, ha la possibilità di essere efficace in situazioni in cui le manifestazioni sono le più disparate. La caratteristica dell’approccio psicanalitico è infatti quella di permettere alle persone di esprimere, in un contesto protetto e favorevole come quello della seduta, proprio quell’angoscia che finora ha fatto il possibile per eliminare dalla sua vita.

Per la persona in questione è fondamentale arrivare a verificare che è possibile riconoscere la propria angoscia, che è possibile esprimerla, e in questo modo si libera la strada interna per riattivare un ambito personale più profondo, quasi ormai sconosciuto a se stessi, ove la fiducia in se stessi, la sicurezza di base, così necessaria oggi per vivere, non sia una sensazione ricercata per se stessa, e quindi accompagnata dalla paura che sia in realtà inconsistente, ma ben fondata su elementi reali.

Il raggiungimento di una percezione stabile di sicurezza di base è la condizione che permette di rinunciare, di conseguenza e non per tentativi volontaristici carichi di tensione e troppo spesso inefficaci, all’uso di palliativi. I palliativi , che siano sostanze o modalità di reazione personali, strutture di sopravvivenza acquisite rinforzate nel tempo, cadono quando sono sentite dalla persona in questione come una sostituzione ormai inutile di una realtà personale profonda, molto più rassicurante, concreta e potenzialmente capace di sviluppo, di qualsiasi stato psichico ottenuto con artifici.

Appartiene alla nostra modalità di lavoro la possibilità di prendere in carico, con un approccio psicanalitico, anche quelle situazioni che in passato la psicanalisi non poteva affrontare, perché troppo profondi e primitivi erano i problemi da affrontare da parte del soggetto, e ingestibili le angosce che emergevano.

Con la scoperta, però, dell’efficacia terapeutica del rapporto con il genitore omologo, ecco la chiave di volta perché l’angoscia possa trovare modo di esprimersi e trovare risposta nello stesso tempo.

Arrivati a questo punto, è chiaro che i presupposti che ho sottinteso, per quanto riguarda il trattamento di persone tossicodipendenti, sono:

1) Che il comportamento tossicodipendente sia un modo di arginare l’angoscia relativa a uno stato di insicurezza di base.

2) Che questo stato di insicurezza di base non sia immodificabile come sembra al soggetto quando lascia spazio alle emozioni emergenti, ma sia il modo di manifestarsi di una crisi d’identità.

3) Che sia possibile, con un trattamento psicanalitico adeguato, giungere, per il soggetto, a recuperare uno stato di sicurezza di base.

4) Che metodo efficace, per ottenere questo obiettivo, sia lo spostare l’attenzione, in seduta, dal soggetto in questione al rapporto con il genitore dello stesso sesso. Poiché, in analogia con i casi delle depressioni gravi e irrisolte, man mano che procede il riconoscimento dell’esistenza e della fondamentalità, nella propria realtà personale profonda, di questo rapporto, anche le angosce più temibili possono essere affrontate e superate.

Tutti questi presupposti sono stati verificati ampiamente nella pratica clinica.

Per quanto riguarda la tossicodipendenza come unica sintomatologia, o meglio come soluzione palliativa unica ad una crisi personale non risolta, assai raramente si presentano le condizioni per un trattamento diretto di questo genere: nei casi con cui ho avuto a che fare il trattamento era richiesto dal soggetto stesso non tanto per liberarsi dalla tossicodipendenza, quanto per liberarsi dall’angoscia che nemmeno la tossicodipendenza poteva risolvere; in molti di essi, inoltre, la tossicodipendenza era uno soltanto dei comportamenti socialmente disturbanti e personalmente pericolosi che il soggetto metteva in atto: questi quadri appartengono piuttosto alle situazioni di psicosi conclamata, e quindi non avrebbe molta efficacia, per l’obiettivo che ci prefiggiamo oggi, farne un resoconto dettagliato. Più importante è sottolineare che quando la tossicodipendenza è l’unico modo che una persona trova per rispondere alla propria crisi d’identità personale, non chiederà mai certamente a nessuno di togliergliela, perché per lui, o lei, sarebbe come voler fare a meno dell’unica cosa che tiene, in qualche modo, in piedi: se si toglie quello, non resta che franare. Quando si dice, di un tossicodipendente in uno stadio molto avanzato, che pensa solo alla “roba”, si mette il dito sulla piaga: se la roba ha sostituito completamente ogni altra forma di conferma dell’identità personale, sarebbe come togliergli addirittura se stesso.

Dal punto di vista operativo ciò si traduce nella necessità di un lavoro preparatorio, fatto solitamente con parenti preoccupati per lui o per lei e coinvolti dai suoi comportamenti, perché il soggetto in questione arrivi a percepire le possibilità ancora aperte per la soluzione della sua crisi personale.

La vera malattia da curare non è, allora, l’uso di droghe, ma l’incapacità di rivolgersi alla fonte della conferma dell’identità personale.

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